“Cgil 100 anni al lavoro”, pp. 284, euro 12,00, Ponte alle grazie

“Cgil 100 anni al lavoro”. Un ampio e documentato volume, in questi giorni in libreria, che raccoglie decine di interviste e molti contributi, per raccontare il secolo del maggiore sindacato del nostro paese.
Il lavoro cambia. Esiste ancora la classe operaia?

Pubblichiamo un estratto dell’intervista al sociologo Luciano Gallino tratta dal volume “Cgil 100 anni al lavoro” (pp. 284, euro 12,00) in questi giorni in libreria per l’editore Ponte alle Grazie.
 

La società dello sviluppo tecnologico e di un nuovo ruolo della conoscenza ha prodotto notevoli cambiamenti nel mondo del lavoro, dalla formazione dei lavoratori al loro utilizzo. Queste trasfomazioni, la concezione stessa del lavoratore, come stanno influenzando il comportamento del sindacato?

E’ opportuno partire da un’ampia premessa, perché troppo spesso si mettono insieme sotto la stessa dizione di “nuovi lavoratori” delle situazioni molto differenti. Quello che è avvenuto negli ultimi quindici/vent’anni, dopo lo sviluppo dell’informatica, è la comparsa di un certo numero di professioni radicalmente nuove: esperti delle telecomunicazioni, disegnatori di siti web e molte altre professioni nate da tecnologie che venti anni fa non esistevano o erano agli esordi. Indubbiamente e sotto vari profili l’evoluzione ha inciso profondamente sulla struttura dei rapporti di lavoro frammentandoli giuridicamente e territorialmente, complicando l’azione e la rappresentatività del sindacato. Le grandi fabbriche sono scomparse, ma in molti casi non è scomparso quello che le grandi fabbriche producevano. Ma quello che veniva prodotto prima in due chilometri quadrati adesso viene prodotto in mille chilometri quadrati o magari a mille chilometri di distanza. Sono nate le cosiddette catene globali di produzione che anche all’interno di un singolo paese si possono distribuire su spazi grandissimi. Per esempio, una buona parte dei componenti della Fiat di Mirafiori vengono dal centro Italia e dal sud, a ottocento chilometri di distanza, così come molti elementi del distretto piemontese della componentisitica vanno in Germania o magari negli Usa. Questa evoluzione, in particolare per il suo peso, le sue dimensioni e per la sua diffusione, è stata più importante di quella strettamente tecnologica, perché sono milioni i lavoratori che non lavorano più come prima e che adesso sono inquadrati in diversi tipi di contratto, in modelli organzzativi molto diversi e spesso radicalmente innovativi. La precarizzazione, ad esempio, è una componente per certi versi essenziale di questo processo: le catene globali di distribuzione del lavoro significano frammentazione della produzione in unità produttive sempre più piccole che possono facilmente venire dismesse, chiuse o delocalizzate, trasferendo un gran numero di lavoratori, con il risultato che molti vengono licenziati o messi in mobilità. I sindacati che si erano evoluti per 80 anni, dalla fine dell’800, per fare fronte al pressing materiale e ideale di lavoratori che stavano tutti sotto lo stesso tetto, a volte in centinaia, in molti casi in migliaia, hanno avuto e hanno gravi difficoltà per stare dietro a questa deterritorializzazione della produzione e a questa enorme diffusione dello spazio territoriale e anche giuridico. Venti anni fa c’era un tipo di contratto o due, oggi ne esistono dozzine e dozzine.

C’è un lato positivo nella flessibilità? Cioè, il lavoratore flessibile può essere più aperto ai cambiamenti e quindi anche all’evoluzione del suo modo di lavorare e alle possibilità di avanzare?

Un lato positivo c’è, però cozza contro le forme attuali di organizzazione del lavoro. Perché nelle fabbriche o anche nelle società di servizi, che sono diventate sempre più piccole, c’è stata una riduzione della gerarchia aziendale, una maggiore apertura per competenze e iniziative individuali, ma anche richieste di genere nuovo, come l’esigenza di tamponare improvvise variazioni della produzione o incidenti tecnici o altre forme di turbamento del flusso produttivo. Tutto questo può essere la premessa per un tipo di lavoro più intelligente, più emancipato, qualitativamente migliore di quanto non fosse nel passsato. Però se uno va a vedere l’organizzazione del lavoro scopre che in moltissimi casi, direi la maggioranza, l’organizzazione del lavoro è rimasta quella di 40 o 50 anni fa. Magari non c’è più l’ufficio tempi e metodi, che è l’archetipo della cosidetta organizzazione scientifica del lavoro, ma c’è il calcolatore che governa fasi di produzione di un minuto, due minuti, tre minuti che è esattamente quello che faceva l’ufficio tempi e metodi. Semmai lo fa con ancor minore umanità. Questo vale anche per settori relativamente recenti: nei call center ci sono le fasi, le chiameranno magari in un altro modo ma ci sono le fasi di un minuto, un minuto e mezzo per rispondere, capire qual è il problema e dirottarlo sul settore che può risolvere quel problema. Nella ristorazione rapida o nell’industria agroalimentare che venti anni fa non esisteva, adesso ci sono forme di organizzazione del lavoro estremamente parcellari. Io temo che per il momento parlare di lavoratore versatile in un buon numero di casi sia dipingere la realtà con una nuova vernice, ma la sostanza non è poi molto diversa dall’antica divisione del lavoro dove alcuni pensano e molti eseguono.

Possiamo ancora parlare di classe lavoratrice?

Mi costringe a rispolverare l’antica distinzione fra classe in sé e classe per sé: la classe definita da parametri oggettivi e quella definita invece da parametri soggettivi, dal senso di identificazione, dalla solidarietà con gli altri e dalla coscienza di appartenere a una medesima classe e di avere un comune destino. Se si guarda alla prima definizione, non c’è il minimo dubbio che si tratta pur sempre di persone che in base al tipo di lavoro che fanno, al tipo di reddito, al posto molto basso che occupano nell’ordinamento delle imprese, presentano una comunità di collocazione sociale, di situazione, di destino altrettanto precisa e severa di quanto era l’operaio alle catene di montaggio cinquanta anni fa. Se si parla invece di classe per sé, cioè di persone che hanno coscienza del loro destino e lottano per superarlo, be’, qui per certi aspetti si sono fatti molti passi indietro, anche per ragioni oggettive. Perché prendere coscienza della comunanza di destino in un capannone con tremila operaie che fanno lo stesso lavoro è un processo più diretto e più profondo di quando gli stessi lavoratori sono dispersi su un terreno di trentamila metri quadrati e non si vedono più.
 

Claudio Jampaglia e Andrea Milluzzi, "Liberazione", 15 marzo 2006