Diego Giachetti, "Caterina Caselli, una protagonista del beat italiano", Edizioni Alegre, Roma, 2006, euro 11,00

Non importa se qualcuno
sul cammino della vita
sarà preda dei fantasmi del passato
il denaro e il potere sono trappole mortali
che per tanto, tanto tempo han funzionato
ma noi non vogliamo cadere
non possiamo cadere più in giù
(E’ la pioggia che va-Remeber the main,
di P. Lind, Mogol, 1966)

L’ascolto, questa nozione apparentemente modesta
(che non figura nelle enciclopedie del passato
e neppure appartiene ad alcuna disciplina riconosciuta),
è in fondo come un piccolo teatro
sul quale si affrontano due moderne deità,
l’una negativa e l’altra positiva:
il potere e il desiderio
(R. Barthes e R. Havas in Enciclopedia,
Einaudi, 1977, I, p. 990)


Il libro ricostruisce l’itinerario di una protagonista singolare della musica italiana che ancora oggi si muove nel mondo della canzone ma con altri mezzi: come maneger, “produttrice” di artisti, di film e talvolta televisione, la cui attività canora è ben documentata dal doppio cd del 2004 intitolato Caterina Caselli, casco d’oro dal 1964. L’autore ha operato lo sforzo, come sempre bisognerebbe fare nelle ricerche relative alla cultura di massa, di individuare l’effetto dell’opera sui comportamenti dei soggetti a cui è rivolta, in questo caso della generazione che a metà degli anni sessanta era nel pieno sviluppo del suo romanzo di formazione: “la canzone non è più un mezzo di espressione come un altro, viene meno la separazione tra cantante e ascoltatore. Il cantante non è più quella persona che sale sul palco, canta, riceve gli applausi e scompare dietro le quinte. Ora, canzoni e cantanti diventano entrambi fenomeni di costume. Il cantante è interessante anche per la vita che conduce fuori dal palco, diventa mito, idolo, in lui si identificano i fans, il pubblico” (p. 33)
La descrizione si sottrae all’interpretazione che vede i consumi musicali come soddisfazione di bisogni artificiali indotti unicamente dal mercato e gli ascoltatori come utenti passivi, e illumina una crisi e una carenza di vecchi valori che trascendono lo specifico musicale presso i giovani, i quali dei cantanti “non invidiano i facili guadagni, anzi identificano in loro le speranze di ‘mutare stato’, e in questa voglia di mutare  la propria posizione esprimono ‘l’insofferenza per il proprio destino’ fissato dagli adulti che li vogliono studenti diligenti, operai coscienziosi, contadini, dottori, professori: in fondo, nell’adorazione del divo i giovani divinizzano se stessi” (p. 34).
E’ realistica questa ipotesi? Quando il termine beat entra nell’uso corrente in Italia, tra il 1965 e il 1966, la vendita di chitarre è tale per cui si formano circa cinquemila complessi dei quali, dopo scomposizioni, riunificazioni e modificazioni di denominazione, ne sopravvivono circa mille con una diffusione perfino nei piccoli comuni di provincia.  E’ un fenomeno sociale che si diffonde in particolare tra i giovani lavoratori che alle otto ore di lavoro ne aggiungono altre tre-quattro per suonare in scantinati e retrobottega. Talvolta accade che alcuni di essi varchino persino le porte delle chiese con chitarre elettriche e batterie per suonare le messe beat o ye ye, provocando scandalo presso i fedeli tradizionalisti e la stampa conservatrice.
Emuli di questo o quel cantate in voga, questi suonatori improvvisati prendono la parole aspirando al superamento del semplice consumo, con una produzione culturale che esprime l’insofferenza della condizione esistenziale giovanile nei confronti dei genitori e del mondo adulto: si aiutano con testi sovente tradotti e arrangiati dall’inglese e dall’americano.
“Caterina, vai a Sanremo, avrai successo”: queste parole sono l’incitamento della guardarobiera di un locale di Bologna che ha appena sentito Nessuno mi può giudicare e si qualificherà così miglior giudice della giuria del festival di Sanremo del 1966. Il vincitore è il melodico Dio come ti amo cantato dalla coppia Domenico Modugno e Gigliola Cinquetti, ma il mercato consola gli sconfitti beat, mentre la canzone vincitrice raggiunge  a mala pena quota 300 mila copie vendute, Nessuno mi può giudicare vende 500 mila copie. Il genere beat trionfa vendutissimo in tutta la penisola grazie a Caterina Caselli, “la più autentica trionfatrice della manifestazione. Il suo secondo posto trascende il valore numerico della classifica poiché è stato conquistato in un ambiente che, dalla Rai Tv a buona parte della stampa era chiaramente e faziosamente ostile ai giovani e alle loro novità” (p. 49).
L’artista stessa è sorpresa dal successo, quando, dopo l’esibizione sanremese, constatando in seguito a tre tentativi che nei negozi di dischi non riesce a trovare Nessuno mi può giudicare, chiedendo al telefono alla casa discografica spiegazioni del fatto, si sente rispondere. “signorina sono andati esauriti in tutta Italia, stiamo stampando i suoi dischi anche di notte”. Al Cantagiro, racconta Caselli “mentre scorrazzavo per le strade d’Italia, avevo con me una ragazza inglese che mi faceva lezione e alle due di notte giravo film come Perdono o Nessuno mi può giudicare” (p. 50). Non si tratta né di fortuna né di mercato, anche se quest’ultimo incombe: “un mese dopo Sanremo, le mie entrate non erano cambiate: soldi non ne avevo guadagnati, i contratti erano già firmati. Avevamo un bisogno disperato di denaro. Ecco perché accettai di giare il film tratto dalla canzone” (p. 51).
Il modo di esibirsi colpisce la memoria e l’intelligenza. “Il microfono attaccato alla bocca, come fosse una bottiglia di coca cola. Le vibrano le ginocchia scoperte, i fianchi e le spalle, mentre da un momento all’altro, a furia di tremiti meccanizzati, sembrava che la testa si volesse svitare. Seguivano altri gesti coi quali pareva alle volte ruotare o agitare una bandiera, avviare un motore, dimenare un codino, mimare l’ansioso pulsare delle macchine moderne, comunque facendo aderire in modo perfetto quella musica selvaggia al suo battito fisico, diventandone lei lo strumento scosso, frenetico, agitatissimo”. Questa descrizione, opportunamente ripresa da Camilla Cederna, fa venire meno la usuale distinzione tra autore e interprete quando nell’esecuzione il corpo dell’artista si muove e comunica. Se ciò avviene –poiché l’ascolto moderno si differenzia dall’udire e dal decifrare in quanto non concerne ciò che viene detto ma l’emittente e si situa in una relazione intersoggettiva in cui l’io-ascolto equivale ad ascoltami- allora l’artista riesce ad interpretare i cambiamenti sociali e culturali del suo tempo incarnandone lo spirito.
“Caselli appartiene a quella schiera delle beat girls il cui fascino non è più legato  soltanto all’avvenenza fisica ma alla grinta, a un nuovo modo femminile di porsi. Lei infatti è dotata di una carica trasgressiva che la pone tra gli innovatori dello stile degli anni sessanta” (p. 52). Giustamente l’autore titola La marsigliese delle  ragazze ye ye l’analisi della ribellione delle giovanissime  alla ipocrita e ottusa morale sessuale, che si trova riflessa e anticipata da Nessuno mi può giudicare.
Quando nel 2004 accade alla Caselli di essere fermata per strada e di sentirsi dire: “lei mi piaceva per la sua prepotenza”, lei sostiene: “mai ricevuta una recensione più bella; essere considerata prepotente mi fa sentire orgogliosa perché in un certo modo con la mia aggressività difendevo anche le donne come lei” (p. 62), allora significa che tra l’io-ascolto e l’ascoltami l’interazione è stata intensa e profonda.
Sentimenti, passioni, amori, delusioni, speranze, tensioni, progetti di una generazione in formazione si ritrovano nelle canzoni del “casco d’oro” e sono percorse dall’analisi tematica che le riconduce al contesto storico-sociale, in cui lo scopo di ciò che si ricerca non è “uno scontro frontale con il potere e le istituzioni dominati, quanto quello di instaurare una comunità alternativa, un modo diverso di vivere, capace di insediarsi nel territorio, seguendo le inclinazioni umane e sociali degli individui” (p. 76).
Non potendone seguire i minuziosi sviluppi ci limitiamo a segnalare, nello scontro tra linea gialla e linea verde nel beat italiano, l’analisi originale del brano Le biciclette bianche di Francesco Guccini. Riprende tematiche del movimento olandese dei provos, che elegge a proprio simbolo il bianco e persegue l’utopia di un mondo senza sporcizia e inquinamento, la socializzazione dei mezzi di produzione, le biciclette bianche al posto delle automobili, la non violenza, la difesa della natura. Una rivoluzione giovanile divertente e gioiosa contro l’America e l’URSS “perché il capitalismo costringe gli uomini a lavorare per vivere, il socialismo li fa lavorare d’autorità. E’ necessario lavorare in una società ricca ed evoluta, dove la produzione può essere affidata alle macchine? No, e allora non c’è più bisogno di capitalismo e di socialismo” (p. 81).
Oggi che, per fortuna, l’URSS non c’è più sarebbe interessante chiedersi cosa avviene nella mente degli ascoltatori quando sentono Bisognerebbe non pensare che a te. Il “te” quale zona dell’inconscio muove? Solamente quella afferente all’amata/o forse anche assieme quella delle biciclette bianche? Non bisogna dimenticare che la carriera artistica di Caterina Caselli inizia quando, giovanissima, può annunciare alla madre un po’ scettica: “mi hanno detto che ho orecchio” e che ha mostrato di saper governare con sapienza, lungo tutto il suo percorso, la dialettica di potere e desiderio.

Francesco Racco