Salvatore Cannavò, "Porto Alegre capitale dei movimenti", Manifestolibri, pp. 218, Euro 9,50

Recensire il volume di Cannavò (giornalista di Liberazione e di Bandiera Rossa) sui “percorsi e progetti di un movimento globale” è opera che provoca notevole imbarazzo. Non tanto perché vi si esprima un impianto di analisi poco condivisibile del movimento e del quadro politico e sociale in cui esso si situa, quanto piuttosto perché l’impressione sconcertante che si ha già dopo poche pagine è che un impianto di analisi vi sia del tutto assente. Le circa 160 pagine che formano il saggio costituiscono l’ulteriore ripetizione di una storia, quella che va da Seattle al secondo Forum di Porto Alegre, che ci è già stata raccontata in tutte le salse e che certo meritava uno sforzo un po’ più consistente per cercare di approfondire piuttosto che ripetere. La mancanza di argomentazioni è malcelata dietro l’ossessiva ripetizione dell’aggettivo “nuovo”, che ricorre 104 volte nell’arco di 160 pagine riferito al movimento, alle sue abitudini, alle sue iniziative, ai suoi protagonisti, quasi ad imitazione di una consuetudine del marketing secondo cui, poiché tutto ciò che è nuovo è bello, si stampiglia questo miracoloso aggettivo su ogni confezione a diritto e a rovescio, grande e piccolo, con i colori più vivaci pur di incrementare le vendite: “Questa nuova politica costituisce la precondizione per una nuova sinistra (…) capace di confrontarsi con una dialettica complessa che vede piani diversi e distinti fra loro -il sociale, il sindacale, il politico- intrecciarsi in forme nuove, senza però che le rispettive specificità siano del tutto superate e quindi costringendo a nuove mediazioni e a nuove relazioni; disponibile a ricostruire senza presunzioni, né autosufficienza, un nuovo pensiero critico e una nuova grammatica della trasformazione, fatta di obiettivi conseguenti e inscritta in un disegno coerente: non basta parlare nuovamente di socialismo, ma occorre declinarlo alla luce di un fallimento storico e in relazione ai nuovi bisogni espressi dalle molteplici soggettività antagoniste.” (corsivi nostri). Del resto lo stesso Cannavò tradisce questo approccio da consulente per le vendite riferendosi più volte al movimento come se stesse parlando di una scatoletta di sardine sott’olio di marca: “Si tratta di una spiegazione che attiene all’offerta del ‘prodotto’, non è sufficiente a spiegare la domanda, ovvero la risposta di massa che confluisce a Genova”; e a proposito della variegata composizione sociale politica del movimento “basato sulla miscela di giovani precari e lavoratori, di non violenti e di ‘radicali’, di cattolici e di marxisti, di teorici del consumo critico e di femministe. Sono tutti ingredienti di un prodotto (questa volta senza virgolette. n.d.r.) che, se proposto per parti separate, non avrebbe lo stesso appeal.”

Quando poi si cerca di nobilitare l’esposizione con qualche riflessione più prettamente politica i risultati sono paradossali. Accade quando Cannavò fa riferimento a questioni di analisi del quadro politico internazionale: “I proletari postmoderni (sic!) chiedono la più semplice e la più difficile delle rivendicazioni: la democrazia, contraddetta spregiudicatamente dagli istituti finanziari internazionali, dalla contestuale erosione del potere degli Stati (quelli più deboli, evidentemente, mentre i più forti si rafforzano), dall’omologazione delle forze politiche attorno ai dogmi del liberismo e, infine, dalla corruzione e dalla commistione illecita tra politica ed economia.” In poche righe scopriamo che gli Stati che vedono diminuire la propria autorità sono quelli più deboli (ma non si era detto che l’imperialismo non esiste più perché gli Stati (ex)imperialisti hanno perso la loro sovranità?) e che esisterebbe una commistione “illecita” (ma per chi?) tra politica ed economia, alla faccia del “ritorno a Marx”! Manca solo l’evocazione della “questione morale” per completare una frase che potremmo tranquillamente attribuire a al Giudice Caselli o a Don Ciotti.

Non parliamo poi di quando ci si addentra nella situazione argentina. Prima si pontifica sulla spontaneità del movimento e sugli effetti “della crisi delle sinistre e dell’assenza di un “programma generale da proporre al paese”, poi si accenna di sfuggita al fatto che organismi popolari che rappresentano centinaia di migliaia di persone rivendichino “abolizione del debito estero, libertà per i detenuti, nazionalizzazione delle banche e delle imprese essenziali, accesso immediato ai depositi bancari di piccolo risparmio, salario minimo per i disoccupati, ecc.”. Evidentemente queste rivendicazioni, che come è noto germinano spontaneamente ogniqualvolta si verifichi una crisi economica, non costituiscono un programma generale per affrontare la situazione argentina, forse perché non abbastanza “postmoderne”…

Inarrivabili sono poi i capitoli sul bilancio partecipativo e sulla Tobin Tax. Il primo non alluderebbe -ci assicura Cannavò- a “una presunta riformabilità delle istituzioni “borghesi” (i termini appartenenti al vocabolario comunista sempre rigorosamente virgolettati, n.d.r.) per mezzo di una spinta dal basso, all’interno di una improbabile strategia “di lotta e di governo”. Sarebbe invece un modo per superare “i limiti e le insufficienze del sistema rappresentativo e per costruire la democrazia partecipativa diminuendo la delega e la burocratizzazione di quello”. Quindi non si dice che le istituzioni borghesi siano riformabili, ma che possano essere sburocratizzate. Non so se avete colto la sottile differenza! Si prosegue riportando frasi dell’ex sindaco di Porto Alegre Pont che cita la Comune di Parigi come modello di Porto Alegre, dicendo che il bilancio partecipativo è il “prodotto di un processo rivoluzionario e non di una ‘semplice’ vittoria elettorale”. Chiosa Cannavò: “La democrazia partecipativa come pratica, la democrazia diretta come evocazione.” Analogamente se l’era cavata a buon mercato a proposito della Tobin Tax: “La Tobin Tax , se applicata, non risolverebbe nessuno dei mali del pianeta; ma se fosse applicata costituirebbe un simbolo inequivocabile di un altro orientamento e di un’altra strada per l’umanità”. E così, intanto che si evoca il socialismo, si pratica il buon governo. Se poi a Porto Alegre la disoccupazione è al 17% sono i rischi del mestiere.

In effetti ha ragione Cannavò quando sottolinea le affinità che legano alcune pratiche e culture maggioritarie nel movimento alla tradizione situazionista: il gesto esemplare, l’azione simbolica, l’intervento spettacolare. Peccato che quella tradizione, pur feconda da un punto di vista artistico e culturale in genere, sia naufragata quando tentò di darsi un’organizzazione e un intervento politico, misurandosi col movimento dei Provos e col maggio ’68 francese, criticando ferocemente il marxismo. A trent’anni esatti di distanza dalla véritable scissione dell’Internazionale situazionista, possiamo trarre qualche bilancio: il marxismo rivoluzionario infiamma e guida ancora le lotte di milioni di proletari non postmoderni, del situazionismo si legge sui libri di storia dell’avanguardia.
 

Marco Veruggio