Pierre Bourdieu, "Controfuochi 2. Per un nuovo movimento europeo", Manifestolibri, 2001, pp. 126, Euro 9,30

Prefazione

Ho raccolto qui in ordine cronologico, con l’intento di contribuire al movimento sociale che si sta sviluppando in Europa, alcuni interventi pubblici, in parte inediti. In qualche occasione li ho abbreviati onde evitare le ripetizioni, badando tuttavia a conservare il riferimento circostanziale alle attese del momento e del luogo particolare in cui sono stati esposti. Per ragioni che riguardano direttamente me, e soprattutto lo stato attuale del mondo, sono giunto alla conclusione che quanti hanno la fortuna di poter dedicare la loro vita allo studio del mondo sociale, non possono restare neutrali e indifferenti, estranei alle lotte di cui questo mondo è la posta in gioco. Per una parte essenziale queste lotte sono lotte teoriche nelle quali i poteri dominanti possono contare su infinite complicità, spontanee o stipendiate, come quelle delle decine di migliaia di professionisti del lobbying, che affollano i corridoi della Commissione, del Consiglio e del Parlamento a Bruxelles. La vulgata neoliberista, una ortodossia economico-politica imposta tanto universalmente quanto unanimemente accettata, fino al punto da apparire fuori dalla portata di qualsiasi discussione o contestazione, non si è prodotta per generazione spontanea. Essa è piuttosto il risultato del lavoro costante e prolungato di una immensa forza di lavoro intellettuale, concentrata e organizzata in vere e proprie imprese di produzione, di diffusione e di esecuzione. Per fare un esempio la sola associazione delle camere di commercio americane (AMCHAM) ha pubblicato nel solo 1998, dieci opere e oltre 60 rapporti, partecipando a circa 350 riunioni con la Commissione e il Parlamento europei. La lista di questo genere di organismi, agenzie di pubbliche relazioni, lobbies dell’industria o delle aziende private, etc., riempirebbe numerose pagine. Contro questi poteri, che poggiano sulla concentrazione e sulla mobilitazione del capitale culturale, solo una forza critica, fondata su una mobilitazione analoga, ma orientata verso tutt’altri fini, potrà dimostrarsi efficace.
Bisogna ricollegarsi a quella tradizione, affermatasi nel secolo XIX in campo scientifico, la quale, rifiutando di consegnare il destino del pianeta alle forze cieche dell’economia, pretendeva di estendere all’intero mondo sociale i valori di un mondo scientifico seppur indubbiamente idealizzato. Sono ben cosciente del fatto che chiamando i ricercatori a mobilitarsi per difendere la propria autonomia e per imporre i valori connessi al loro mestiere, rischio l’indignazione di quanti, scegliendo le virtuose comodità del rinchiudersi nella propria torre d’avorio, considerano ogni intervento al di fuori della sfera accademica come un pericoloso attentato a quella famosa «neutralità assiologica» che viene a torto identificata con l’oggettività scientifica. Mi espongo, insomma, a essere frainteso o condannato senz’appello in nome di quella stessa virtù accademica che io intendo difendere da sé stessa. Tuttavia resto convinto che si debba, ad ogni costo, far entrare le conquiste della scienza nel dibattito pubblico dal quale sono tragicamente assenti – richiamando, per inciso, alla prudenza i saggisti chiacchieroni e incompetenti che infestano da tempo i giornali, le radio e le televisioni; liberando così l’energia critica rinchiusa tra le mura della cittadella del sapere, in parte a causa di una malintesa virtù scientifica che vieta all’homo academicus di immischiarsi nei dibattiti plebei del mondo giornalistico e politico, in parte in conseguenza di quelle abitudini di pensiero e di scrittura che spingono gli specialisti a considerare più agevole e anche più profittevole (dal punto di vista dei profitti propriamente accademici), destinare i prodotti del proprio lavoro alle pubblicazioni scientifiche che saranno lette esclusivamente dalla cerchia dei loro pari. Numerosi economisti, che in privato manifestano tutto il proprio disprezzo per l’uso che i giornalisti o i presidenti delle banche centrali fanno delle loro teorie, si indignerebbero se qualcuno gli ricordasse che il loro silenzio è responsabile, in misura non indifferente, del contributo che la scienza economica offre alla giustificazione di politiche scientificamente ingiustificabili e politicamente inaccettabili.
Dunque, bisogna far uscire il sapere dalla sua cittadella, o,compito ancora più arduo, convincere i ricercatori a intervenire nella sfera della politica. Ma per quali azioni, per quale politica? Dobbiamo ritornare a questo o a quel modello sperimentato di «impegno» degli intellettuali: quello dell’intellettuale che firma appelli e dichiara solidarietà, semplice garanzia simbolica strumentalizzata più o meno cinicamente dai partiti, o quello dell’intellettuale pedagogo ed esperto che mette a disposizione il suo sapere o che, a richiesta, ne fornisce uno su misura? Oppure inventare un nuovo rapporto tra i ricercatori e i movimenti, che potrebbe fondarsi sul rifiuto della separazione, senza per questo indulgere a un’idea di «fusione», e sul rifiuto della strumentalizzazione, senza tuttavia perdersi dietro alle fantasticherie antiistituzionali? E concepire una nuova forma di organizzazione, capace di riunire ricercatori e militanti in un lavoro collettivo di critica e di proposta che possa condurre a nuove forme di mobilitazione e di azione?
Ma quale forma conferire a questa azione politica e su quale scala, nazionale, europea, mondiale, proiettarla? Gli obiettivi tradizionali delle lotte e delle rivendicazioni non sono forse diventati tranelli per distogliere l’attenzione dai luoghi dove si esercita il governo invisibile dei potenti? Gli stati sono paradossalmente all’origine delle misure economiche (di deregulation) che hanno condotto al loro spossessamento economico. E, contrariamente a quel che affermano tanto gli apologeti quanto i critici della politica di «mondializzazione», continuano a esercitare un ruolo conferendo la loro garanzia alla politica che li spossessa. Svolgono una funzione di schermo che impedisce, ai cittadini, ma anche agli stessi governanti, di percepire il loro proprio spossessamento e di individuare i luoghi e le poste di una vera politica. Una funzione di schermo che dissimula i poteri che li sostituiscono 4 o, più esattamente, delle maschere che, attirando l’attenzione e fissandola su delle controfigure, degli uomini di paglia, dei prestanome – quei nomi propri che si affrontano sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e nell’arena elettorale – distolgono dai loro veri bersagli rivendicazioni e proteste.
La politica non ha mai cessato di allontanarsi dai cittadini. Ma siamo condotti a pensare che alcuni obiettivi di un’azione politica efficace si collochino a livello europeo poiché le imprese e le organizzazioni europee conservano un peso determinante nell’equilibrio globale. Ci si può dunque dare l’obiettivo di restituire l’Europa alla politica, o la politica all’Europa, lottando per la trasformazione democratica delle istituzioni profondamente antidemocratiche di cui si è dotata: una Banca Centrale al di sopra di ogni controllo democratico; un insieme di comitati di funzionari non eletti da nessuno, che operano nel segreto e decidono di tutto sotto la pressione delle lobbies internazionali al di fuori da ogni controllo democratico o burocratico; una Commissione che, pur concentrando immensi poteri, non deve render conto né di fronte a un falso esecutivo, il Consiglio dei ministri europei, né di fronte a un falso legislativo, il Parlamento, istanza essa stessa quasi totalmente disarmata nei confronti dei gruppi di pressione e sprovvista di quella legittimità che solo una elezione a suffragio universale da parte dell’insieme della popolazione europea potrebbe conferirle. Non ci si può attendere una reale trasformazione di queste istituzioni, sempre più sottomesse alle direttive di organismi internazionali che mirano a liberare il mondo da tutto ciò che ostacola l’esercizio di un potere economico sempre più concentrato, che da un vasto movimento sociale europeo, capace di elaborare e di imporre una visione al tempo stesso aperta e coerente di Europa politica: un’Europa ricca di tutte le conquiste culturali e sociali del passato e forte di un progetto di rinnovamento sociale generoso e lucido, coscientemente aperto sul mondo intero.
Il compito più urgente mi sembra quello di trovare i mezzi materiali, economici e soprattutto organizzativi per spingere tutti i ricercatori competenti a unire i loro sforzi a quelli dei militanti per discutere ed elaborare collettivamente un insieme di analisi e di proposte di trasformazione, che oggi non esistono se non allo stato virtuale di pensieri individuali e isolati, in pubblicazioni marginali, rapporti confidenziali o riviste esoteriche. È chiaro che nessuna raccolta documentaristica, per quanto minuziosa ed esaustiva, nessuna discussione all’interno dei partiti, delle associazioni o dei sindacati, nessuna sintesi prodotta dai teorici potrà sostituirsi ai risultati di un confronto tra tutti i ricercatori orientati all’azione e tutti i militanti, con le loro esperienze e riflessioni, nell’insieme dei paesi europei. Solo l’assemblea ideale di tutti coloro che, ricercatori o militanti, hanno qualcosa da portare all’impresa comune potrà costituire il formidabile edificio collettivo degno, per una volta, del concetto, abusato e compromesso, di progetto di società.

NOTE

1 Sulla genesi del tatcherismo, vedi KEITH DIXON, Les Evangelistes du marché, Paris 1998.
2 Su questo punto vedere BELÉN BALANYA, ANN DOHERTY, ADAM MA’ANIT, ERIK WESSELINS, Europe Inc, Liasion dangereuses entre institution et millieux d’affaires européens, prefazione di Susan George, Marseille, 2000.
3 In particolare in pensatori diversi come Ritt Tawney, Emile Durkheim e Charles S. Pierce. Cfr Thomas L. Haskell, «Professionalism Versus Capitalism: R. H. Tawney, E Durkheim e C. S. Pierce on the Disinterestedness of Professional Communities» in Thomas L. Haskell (curatore) The Authority of Experts: Studies in History and Theory, Bloomington, 1984.
4 È appunto quello che fa il governo francese quando si attribuisce il diritto di eseguire d’ufficio, fuori da ogni controllo parlamentare, direttive europee che a loro volta non sono che la ritraduzione appena mascherata di quelle dell’Organizzazione mondiale del commercio (Cfr ALINE PAILLER, «La maladie des ordonnances», Le Monde, 4. Nov. 2000).