Riccardo Borgogno, Vietato gettare i rifiuti, Edizioni Angolo Manzoni, Torino, 2003, pp. 256. euro 10.00

 Per ora in Italia, è stato decretato, una generazione, o meglio un pezzo di essa, non ha diritto alla sua memoria. Può ricordare certo, ma non può rivendicare la legittimità pubblica di quel ricordo. Subito, nel caso quella memoria emerga per sbaglio, c’è chi si affretta a dire che quella è falsa coscienza, cattiva memoria, inutile se non dannosa. Inutile dire che, dato questo contesto, a nulla vale l’ostentata e declamata imparzialità dello storico nel fare il suo mestiere, difatti pochi storici o ricercatori sociali in genere si sono avventurati per ora sul periglioso terreno degli anni Settanta; e quando l’hanno fatto, difficile è stato liberarsi della veste del pubblico ministero che, coscientemente o inconsciamente, tendono a mettersi sulle spalle in qualche capitolo che assume i toni della requisitoria, con annessa richiesta di pene da scontare ancora.
 Là dove per ora si arresta la ricerca storica, inceppandosi nel ruolo del censore o del pubblico ministero, comincia l’avventura delle nuove narrazioni su quel decennio: è il caso del cinema o del romanzo. Forme narrative, meno vincolanti ad un codice procedurale secco e “scientifico”, lasciano forse più spazio all’arbitrarietà, alla libertà di memoria e di sentimenti, non hanno pretese definitive e oggettive, valide e convalidate. Proprio perché sono punti di vista, sguardi sul passato, hanno meno vincoli e remore a squarciarlo e a raccontarlo, soprattutto perché, spesso e sovente, quel passato sembra unicamente un pretesto narrativo per parlare d’altro, per dipanare una storia, una trama vecchia ed eterna, come nel caso del bel romanzo che ci consegna Riccardo Borgogno: una vicenda di omicidi e intrighi, smaltimenti di rifiuti tossici in modo illegale, finanziarie che vivono sull’orlo dell’illecito e ci sprofondano dentro voluttuosamente, inseguimenti, pedinamenti, misteri, incontri (casuali?) che aprono squarci su un passato dimenticato (apparentemente passato), quando i protagonisti erano giovani rivoluzionari, militanti politici dei gruppi extraparlamentari di sinistra, alcuni dediti alla lotta armata, che vivevano ed operavano nella Torino del 1977, quando all’improvviso l’aula magna di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche,  tornò a stiparsi di studenti, disoccupati, operai “che si accalcavano sui banchi, sulle scale, che premevano all’ingresso, e tutti volevano parlare”. Quando c’erano i circoli del proletariato giovanile dai nomi fantasiosi e irreali: Cangaceiros, Montoneros, Barabba, Pavone, Fantasma; quando molti giovani e novelli indiani metropolitani si dipingevano il viso, improvvisavano girotondi nelle piazze, ballavano, suonavano, spinellavano, mescolando gioia di vivere e impegno politico quotidiano per trasformare, qui ed ora, la società.
“Lui era un militante molto impegnato, lei no”. Lei è Bebè, la ragazza di Marino, il protagonista della nostra storia, negli anni dell’università . Bebè sparita nel nulla e mai dimenticata, ricompare anzi irrompe all’improvviso nella nuova e rispettabile vita di Marino come fosse un fantasma del passato, in maniera prepotente e drammatica, imponendo una sorta di flusso della memoria che si dipana con gli eventi della storia e si confronta con un presente che avrebbe dovuto cancellare il passato e che in realtà lo ha solo temporaneamente rimosso, lasciando in sospeso numerosi conti da saldare, almeno con la propria coscienza.
Bebè, metafora del passato che ritorna, non compare mai fisicamente nella storia. Sin dalle prime pagine due signori della polizia comunicano a Marino Araldi  la sua morte tragica e misteriosa, il ritrovamento del suo corpo sulla riva del Sangone. Per il nostro ex-militante è l’inizio di un’avventurosa, dolorosa e necessaria ricostruzione degli avvenimenti che hanno portato all’uccisione della donna e nello stesso tempo di quel passato interrotto e non risolto che continua a vivere in lui. Nel tentativo di ricostruire quei vent’anni di vuoto che lo separano dalla Bebè del passato, la memoria di Marino si confronta e si intreccia con quella dei suoi compagni di una volta, quelli con cui ha condiviso ideali politici ed entusiasmi giovanili, bevute, viaggi e discussioni vivaci, la vecchia casa ricavata nei locali di un ex-magazzino riadattato in Barriera di Milano. Anche loro, come Marino, sono sopravvissuti loro malgrado ad un passato che li ha feriti in maniera profonda ed ineludibile, attraverso l’esperienza del carcere ma soprattutto spegnendo la fiamma della fiducia in quel futuro migliore possibile e pensabile che ad un certo punto sembrava davvero a portata di mano e che è sfumato nel nulla come una promessa mancata per sempre.
Alcune pagine veramente belle le troviamo nella descrizione di certi angoli della Torino di ieri che si sovrappongono a quelli del presente cercando di renderne non solo l’ambientazione ma, come direbbe un noto storico dell’architettura, il genius loci. Bella e ancora di forte valenza simbolica l’immagine della demolizione della vecchia Lancia di Borgo San Paolo dove il protagonista aveva lavorato dopo aver abbandonato l’università. La distruzione dell’edificio che si trova proprio davanti al suo alloggio attuale sembra testimoniare il passaggio ad una vita nuova e il distacco progressivo e melanconico dai legami con il passato. “Man mano che il suo nuovo lavoro andava bene si espandeva progrediva, la sua vecchia fabbrica si rimpiccioliva, si scioglieva, si dissolveva”.  Significativa ancora l’immagine che ci viene data della sua casa attuale, rifugio provvisorio, più che altro una pausa di riflessione nella vita, un alloggio mai veramente sistemato, tant’è che tutto è ancora accatastato in scatoloni: vecchi libri, dischi… una provvisorietà che cela il desiderio di non prendere decisioni immediate e lascia il tempo al protagonista di inventare nuovi scenari di vita per il futuro. Luogo della riflessione, quindi, cui Marino è affezionato perché “ne conosce ogni centimetro quadrato”. Drammatica e d’effetto ancora la scena della discarica abusiva di rifiuti, che il nostro scopre durante le sue ricerche per scoprire i responsabili dell’assassinio di Bebè, forse la scena più efficace del libro dal punto di vista narrativo.
Un romanzo che non finisce veramente e che lascia aperta la possibilità a scenari nuovi e differenti un po’ come la casa non arredata di Marino dove alla fine il protagonista si rifugia per riprendere in mano i fili del racconto della sua vita.

Diego Giachetti e Carla Pagliero