Peter-Jurgen Boock, "L'autunno tedesco. Scheleyer-Mogadiscio-Stammaheim", DeriveApprodi, 2003, pp. 192, Euro 13

Germania, autunno 1977: la RAF sequestra Hanns-Martin Schleyer, presidente della Confindustria tedesca, massacrando a colpi di arma da fuoco la sua scorta. Dopo 43 giorni di prigionia Schleyer viene ucciso, il 19 ottobre 1977. Il giorno prima, a Mogadiscio, si conclude il sequestro di un aereo passeggeri della Lufthansa dirottato dalla RAF insieme a un commando di terroristi palestinesi. In quelle stesse ore, tre membri del nucleo fondatore dell’organizzazione armata tedesca (Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe), detenuti nel supercarcere di Stammheim, si suicidano in cella.
Questo romanzo ricostruisce le vicende che ebbero il loro tragico epilogo nei due giorni più neri degli anni di piombo: il 18 e il 19 ottobre 1977. Non siamo di fronte a un libro-inchiesta: Peter-Jürgen Boock, membro del commando della RAF che il 5 settembre 1977 sequestrò Hanns-Martin Schleyer, narra in prima persona e in soggettiva i giorni, i luoghi e le conversazioni tra i terroristi e il loro prigioniero. Lo sfondo è quello di una lotta tra la vita e la morte che accomuna carnefici e vittima, i fronti contrapposti della "guerra dei figli contro i padri".
Hanns-Martin Schleyer è uno di questi "padri". Al centro della narrazione non c’è solo il "caso politico Schleyer", le cui dinamiche e il cui epilogo non possono non ricordare al lettore italiano il "caso Moro" di sei mesi più tardi. Dal racconto-diario di Boock emergono anche la personalità, l’umanità, la posizione politica e la colpa storica di un uomo che non solo ha tollerato, ma ha anche collaborato al funzionamento della macchina da guerra nazista.
Con grande lucidità viene inoltre descritto il rapporto pieno di contraddizioni che si instaura tra questo "padre" e la generazione dei "figli" che lo tengono prigioniero, in una narrazione dove al tono sommesso delle conversazioni notturne tra carcerieri e prigioniero si alterna il ritmo convulso delle discussioni, degli spostamenti, e della preparazione del sequestro dell’aereo Lufthansa svoltasi tra la Germania e l’Iraq.

Peter-Jürgen Boock è nato nel 1951. Dal 1975 al 1980 ha fatto parte della RAF. In seguito agli attentati del 1977 fu condannato all’ergastolo. Durante gli anni del carcere ha cominciato a scrivere, il suo primo romanzo sulla RAF, Abgang, che in Germania ha avuto un notevole successo. Boock è tornato in libertà dopo 18 anni di carcere. Oggi scrive e lavora come giornalista free-lance.

Il testo

Hilde era seduta sul materassino di fronte a me. La stanza era arredata in modo spartano: materassi di gommapiuma, sacchi a pelo, alcuni portacenere pieni, una lampada da tavolo per terra che emanava un sottile cerchio di luce. L’unica modifica un po’ impegnativa l’avevamo apportata alla finestra. All’esterno avevamo applicato le decorazioni a forma di nuvola che andavano tanto in quel quartiere. All’interno, invece, avevamo doppiamente foderato i vetri con una pesante tenda di tessuto nero. Non uno spiraglio di luce era visibile da fuori e non poteva così dare nell’occhio a qualche passante colto da insonnia.
Hilde aveva bisogno di dormire. Tra qualche ora avrebbe dovuto dare il cambio a Hans per il turno di guardia dell’ostaggio. Tutti noi soffrivamo di una notevole mancanza di sonno che nei giorni e nelle settimane a venire sarebbe solo aumentata. Passavamo da fasi insonni di sovreccitazione a momenti di estrema stanchezza. Come me, anche Hilde era ancora sotto altissima tensione. Eravamo troppo agitati per chiudere occhio.
Taceva, ma sapevo benissimo che stava ripercorrendo mentalmente tutta l’azione, lo stavo facendo anch’io. Una cosa era sparare a bersagli di cartone nel deserto arabo come facevamo nell’addestramento, un’altra ingaggiare un conflitto a fuoco nel centro di una città, sparare a persone vere e rischiare la vita.
Era come se entrambi cercassimo di soffocare i sentimenti e i brividi che ci scuotevano. Osservavo come cercava di calmarsi con un esercizio di respirazione. Ma le immagini erano ancora troppo forti, non riuscivamo a cancellarle.
Lei e io, una giovane coppia a passeggio con il bambino nella carrozzina, ci eravamo appostati all’angolo della strada, facendo finta di chiacchierare di pannolini, pappette e altri argomenti da genitori. Io tenevo un giornale sotto il braccio, Hilde ogni tanto cullava la carrozzina, come per far stare buono il bambino.
A me sembrava di essere fermo a quell’angolo da ore e avevo l’impressione che ormai chiunque facesse un minimo di attenzione avrebbe notato qualcosa di strano in quella coppietta. Ma, scandite dal ritmo del semaforo, ci passarono davanti innumerevoli colonne di auto, senza che nessuno ci notasse.
Quando ormai iniziavamo a dubitare che Schleyer sarebbe passato, vedemmo arrivare le due vetture che stavamo aspettando. Prima l’auto di servizio del Presidente, seguita dalla macchina della scorta. Io li vidi per primo, con un cenno del capo indicai la circonvallazione e feci un fischio a Hilde: "Eccoli, arrivano, tira via la coperta".
Hilde si chinò sulla carrozzina e rimosse la coperta dal bambolotto a grandezza naturale. Ai lati del bimbo di plastica avevamo sistemato i due fucili d’assalto Heckler&Koch. Lentamente, ci dirigemmo con la carrozzina verso l’imbocco della strada laterale. Hans e Gerhard sedevano in macchina all’ingresso del cantiere dall’altro lato della strada, osservando ogni nostro movimento. Noi ci spostammo dall’incrocio nella loro direzione: quello era il segnale che gli "obiettivi" stavano arrivando.
Dopo aver imboccato la strada, Hilde spinse la carrozzina ancora un po’ avanti, poi si fermò. In quell’istante le due Mercedes Limousine nere svoltarono nella strada laterale. Da quel momento in poi, tutto si svolse a una velocità tale che anche dopo, a mente fredda, ciascuno di noi ha sempre fatto fatica a ricostruire con precisione l’accaduto.
Dopo il mio segnale Hilde si sarebbe concentrata solo sul suo compito, senza lasciarsi distrarre da niente e da nessuno. Per prima cosa avrebbe dovuto far fuori l’autista del Presidente per evitare un tentativo di fuga.
Dopo aver deciso, in una delle discussioni notturne, per il conflitto a fuoco, solo un punto della procedura era stato oggetto di lunghe controversie: l’eventualità di risparmiare l’autista. Ma in nessuna delle varianti che avevamo contemplato potevamo escludere che l’autista fosse armato e che avrebbe cercato di difendere il suo capo. Fu questo a condannarlo a morte.
Il momento era arrivato. Detti il segnale sollevando visibilmente il giornale che tenevo sotto braccio, poi lo gettai nella carrozzina e contemporaneamente afferrai il fucile d’assalto. Anche Hilde prese l’arma dalla carrozzina, che poi spinse via con un energico calcio in modo che non fosse d’impaccio. Quando guardammo di nuovo verso le auto, dalla nostra, appostata all’ingresso di un cantiere provvisorio, cominciarono a sparare, tagliando la strada alle due macchine che scortavano Schleyer. Si sentirono frenate e pneumatici stridere sull’asfalto. Le Limousine che avevano già finito di svoltare nella strada laterale erano troppo veloci e, non riuscendo a schivare l’ostacolo apparso all’improvviso, finirono l’una contro l’altra. Uno schianto doppio. La vettura del Presidente entrò di lato nella macchina dell’agguato, quella dei poliziotti si andò a schiantare sul bagagliaio della Mercedes di Schleyer.
Per qualche secondo sembrò essere tornata la calma. Hilde fece alcuni passi e giunse all’altezza dell’autista, riusciva a distinguerne il profilo. Ebbe l’impressione che l’uomo avesse capito la gravità della situazione, perché stava cercando di far ripartire la macchina. Hilde cominciò a far fuoco: quattro, cinque colpi. Dai sussulti del corpo dell’autista si capiva che era stato colpito. Il suo sguardo sembrava fissare la macchina che aveva investito, anche mentre lei gli sparava non guardò mai nella direzione da cui venivano i colpi. Poi si accasciò sul volante e non si mosse più.
Nessuno di noi riuscì a stabilire in seguito chi di noi, se Hilde, Hans, Gerhard o io, abbia sparato per primo. I proiettili sembravano provenire da tutte le direzioni e quasi ci laceravano i timpani. Hilde si voltò e cominciò a sparare verso la macchina della scorta. Non vedeva nessuno. Dalla sua posizione doveva avere l’impressione che l’auto fosse vuota. Capì però che dalla seconda auto stavano rispondendo al fuoco perché io, che mi trovavo a pochi metri di distanza da lei, continuavo a sparare a raffica in quella direzione.
La sparatoria cessò all’improvviso, così com’era cominciata. Hilde si fermò, abbassò lo sguardo verso l’arma e si spaventò. L’otturatore era aperto, il caricatore vuoto. Si inginocchiò e cambiò il caricatore in gran fretta. Proprio mentre lo stava inserendo nel supporto, gli spari frustarono di nuovo la strada. Guardò verso l’alto e fece appena in tempo a vedere Hans che si metteva al sicuro con un balzo acrobatico sul bagagliaio della nostra macchina. Senza riflettere, Hilde e io ricominciammo a sparare contro gli invisibili poliziotti.
Poi successe il problema con Gerhard. Sbucò all’improvviso sulla nostra traiettoria, né Hilde né io l’avevamo visto arrivare. Saltò accovacciato, zigzagando sotto il fuoco nemico come avevamo imparato a fare durante l’addestramento. Teneva l’arma in alto e la canna puntata obliquamente verso il basso, come se mirasse al di là di un invisibile muro. Senza apparente difficoltà fece un balzo sul cofano dell’auto della scorta, continuando a sparare in direzione del lato protetto del veicolo. Poi più niente, né uno sparo, né un rumore. Gerhard stava ancora in piedi sul cofano. Riuscivamo a vedere che la sua pistola era scarica e che l’otturatore era aperto. Ma lui continuava a piegare l’indice come in uno spasmo.
Il primo di noi che si riprese dallo shock fu Hans. "Avanti, scendi di lì, è finita!". Gridò più forte che poteva, eppure a me sembrò che avesse solo sussurrato. In quel momento mi resi conto che ero quasi sordo. Ma Gerhard lo sentì perché si fermò, saltò giù dal cofano ed esitò davanti ai due veicoli colpiti come se non sapesse cosa doveva fare.
"Porca puttana, sono tutti morti!" gridò con voce isterica. "Qualcuno va a controllare se Spindy è ancora vivo? Alla macchina ci penso io".
Con la testa completamente vuota e i timpani assordati mi diressi verso la strada principale, dove era parcheggiato il furgone della fuga. Hans girò intorno ai veicoli colpiti, raggiunse il lato del passeggero della prima macchina e tirò con forza lo sportello posteriore che era chiuso o che forse, per la violenza dello schianto, si era piegato al punto da essersi bloccato. Finalmente Hans riuscì ad aprirlo e scomparve per un attimo dalla visuale. Hilde raccontò in seguito di aver capito dall’espressione sulla faccia di Hans, quando riemerse dall’abitacolo, che Hanns-Martin Schleyer era ancora vivo.
Si risvegliò di colpo e si diresse verso Hans, che stava trascinando Schleyer, frastornato e sotto shock, dal sedile posteriore alla strada. Uno di noi disse: "Siamo un commando della raf, lei è nostro prigioniero. Se eseguirà i nostri ordini non le succederà niente. Se si rifiuterà di obbedire verrà ucciso!".
L’uomo non sembrò capire una parola, né tanto meno rendersi conto di quanto stava accadendo. Era paralizzato, gli occhi sbarrati guardavano fisso oltre Hans, in direzione della macchina della scorta. Hilde seguì il suo sguardo e vicino allo sportello aperto del veicolo vide due corpi riversi sulla strada.
"Andiamo ora, dobbiamo sparire immediatamente, tra due minuti qui si scatena l’inferno!".
 

(scheda di presentazione del libro preparata dall'editore)