Luca Pastore, “La vetrina infranta. La violenza politica a Bologna negli anni del terrorismo rosso, 1974-1979”, Pendragon, 2013, pp. 396
 

Nel secondo dopoguerra Bologna era considerata un modello della buona amministrazione comunista. Nel marzo 1977, le barricate ed i carri armati nella zona universitaria resero visibile a tutti la rottura della “città-vetrina”. Ma come si era arrivati a quella situazione? E quali furono le conseguenze degli scontri del marzo 1977 sui movimenti sociali?
Il libro di Luca Pastore analizza i percorsi ed i rapporti tra conflitto sociale e violenza politica a Bologna nella seconda metà degli anni settanta. A metà del decennio, a Bologna c’era una conflittualità che si manifestava anche in forme illegali e talvolta violente: occupazioni di scuole e di case, scontri di piazza, autoriduzioni.
Meno numerose, ma in crescita tra fine 1976 e inizio 1977, le attività delle strutture clandestine: “azioni dimostrative, rapine di autofinanziamento, spedizioni contro gli avversari politici, difesa dei cortei”. (p. 30) Verso la fine del 1976, “nuovi progetti eversivi erano ormai giunti a maturazione indipendentemente da congiunture locali” (p. 100)
Successivamente all’omicidio Lorusso ed agli scontri che ne seguirono, gli episodi di violenza politica aumentarono: “dall’aprile 1977, in città vi fu un’impennata degli attentati esplosivi e incendiari”  (p. 214) e “nei primi quattro mesi del 1978, Bologna risultò tra le città più colpite, con 72 attentati dinamitardi o incendiari (assenti però omicidi e ferimenti). (p. 258)
Le organizzazioni armate (Brigate rosse, Prima linea, settori dell’Autonomia operaia organizzata o provenienti da Potere operaio) avevano certamente intenzione di rompere la pace sociale e con la violenza “infrangere la vetrina” della città modello del Pci.
Ma la “vetrina” fu invece infranta ad opera di settori del governo, in primo luogo il ministro dell’Interno Cossiga, che utilizzò i carabinieri ed i loro mezzi blindati per rendere evidente a tutti che la repressione sarebbe stata feroce. Come ricorda un testimone, “c’è una dritta che viene dal ministero degli interni: “dategli un taglio netto a questa gente”...basta con la squadra politica della polizia, che media troppo con la piazza; intervengano i carabinieri”. (p. 190)
Mauro Zani, segretario della Fgci, poi del Pci di Bologna, ricorda che al Pci fu comunicata l’intenzione del governo di alzare il livello dello scontro. Il giorno dell’uccisione di Lorusso, al gruppo dirigente del Pci di Bologna “fu comunicato che nel giro di pochi giorni o addirittura di ore poteva accadere un episodio di gravissima provocazione. E accadde tre ore dopo”. (p. 341)
Le organizzazioni armate e settori del governo hanno dunque ognuno le proprie strategie per cercare di influire sugli altri attori della situazione bolognese: i movimenti ed il Pci.
Per quanto riguarda l’influenza degli scontri del marzo 1977 sui movimenti sociali, ricorda Luca Pastore, essi hanno avuto influenza su quelle “frange del mondo giovanile disposte a interpretare la lotta politica con l’uso delle armi”. (p. 100) Chi “arrivò agli scontri di marzo già convinto della necessità della lotta armata trovò in quei fatti la realizzazione delle teorie sullo scontro aperto con lo stato e i suoi alleati riformisti”. (p. 207)
Le organizzazioni armate cercano di approfittare della radicalizzazione per reclutare nuovi membri.
Le brigate rosse non ebbero mai molto seguito a Bologna. Più elevata fu l’adesione a Prima linea ed alle sigle che consideravano l’intervento armato come avanguardia dei movimenti.
Come ricorda una relazione sul terrorismo in Emilia-Romagna, benché fossero numerosi i militanti di Prima linea forgiatisi sulle barricate del marzo 1977, “il terrorismo non ha mai trovato un terreno particolarmente fertile su cui attecchire” (p. 323).
Per quanto riguarda il Pci, la sua posizione di difendere la democrazia si concretizzò da un lato nel garantire ospitalità al convegno contro la repressione che si svolse in settembre, dall’altro lato si concretizzò invece nell’adesione acritica alla repressione: come disse il sindaco Zangheri al questore, “siete in guerra e noi non possiamo criticare chi è in guerra”. (p. 187)
Ciò che il Pci non poteva tollerare era che qualcuno criticasse che nella città-modello non tutto funzionava. Il punto debole del sistema economico e sociale bolognese riguardava soprattutto le condizioni degli studenti universitari. In particolare, i fuorisede si sentivano sfruttati da padroni di casa e commercianti. Le occupazioni di case e le autoriduzioni erano espressione di questo malessere, a cui il Pci non dava risposta, anzi lo negava. Il Pci vede la città-modello sotto attacco, e si pone dunque l’obiettivo di “dimostrare l’intreccio tra neofascismo, autonomia, criminalità comune e settori dei servizi segreti nell’ottica della destabilizzazione della democrazia e dell’anticomunismo” (p. 217).
Il Pci, che aveva avuto fino a qualche anno prima propri militanti caduti negli scontri di piazza, era diventato un partito d’ordine che negava il centro della città per i funerali di uno studente ucciso dai carabinieri.
I movimenti sociali, stretti tra repressione (arresti, cariche indiscriminate nei giorni di marzo, chiusura di radio Alice) e radicalizzazione di chi vuole lo scontro armato, perdono la possibilità di agire ed iniziano una china discendente. Il convegno sulla repressione, tenutosi a Bologna nel settembre 1977, se da una parte mostra l’effervescenza dei movimenti sociali, che animano le strade di Bologna con manifestazioni, dall’altra vede nell’assemblea al Palasport la divaricazione netta tra l’Autonomia operaia organizzata e le altre organizzazioni di estrema sinistra.
La strategia di Cossiga e dei settori del governo che volevano farla finita con la conflittualità sociale dell’estrema sinistra era riuscita.
 

Fabrizio Billi