Ermanno Conti, “Gli “anni di piombo” nella letteratura italiana”, Longo editore, 2013, pp. 201, Euro 20
 

L’autore analizza le opere letterarie di autori che, nell’arco di un quarantennio, si sono occupati di violenza politica dei gruppi armati di destra e sinistra negli anni settanta e ottanta.
Secondo l’autore, la produzione letteraria può “offrire un contributo importante, al pari di quello offerto dalla ricerca storica e dalla memorialistica, per la comprensione globale degli anni di piombo”. Anche se è azzardato utilizzare le opere letterarie per la ricostruzione storica, ma sicuramente le opere letterarie, almeno quelle di maggior successo, hanno influito sull’immaginario collettivo, ed il libro di Conti è la più completa rassegna sull’argomento.
La suddivisione cronologica secondo cui il libro è strutturato ha lo scopo di inquadrare ogni opera nel proprio tempo.
Alcune tematiche sono presenti in molte opere di diversi periodi: lo scontro generazionale, la riflessione sull’inutilità e dannosità della violenza, l’accento sulle motivazioni psicologiche anziché politiche della scelta violenta, le responsabilità della borghesia e della Dc.
Cambia invece nel corso del tempo l’atteggiamento degli scrittori nei confronti dei protagonisti della lotta armata. Mentre nel libro Caro Michele, di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1973, l’autrice mostra tolleranza per il fenomeno della militanza eversiva, successivamente questa tolleranza verrà completamente meno.
Altre tematiche sono invece proprie di periodi più limitati. Per esempio, le opere sulla strage di piazza Fontana (Fo, Castellaneta, Volponi) hanno la caratteristica comune di sfidare la versione ufficiale della morte di Pinelli.
Il caso Moro, per gli scrittori che se ne occupano poco dopo che avvenne (Arbasino, Sciascia), è emblematico del degrado della situazione italiana. Per Arbasino i sequestratori di Moro sono individui disperati, preoccupati esclusivamente della propria angoscia esistenziale, mentre il linguaggio, astratto e burocratico, delle lettere scritte da Moro, mostra quanto la classe dirigente sia lontana dalla realtà. Sciascia descrive i gruppuscoli di estrema sinistra come velleitari, finanziati e utilizzati dai grandi industriali e dallo stato, mentre ritiene la crisi della democrazia italiana dovuta alla classe dirigente democristiana.
Anche nelle opere prodotte negli anni 80 spesso sono presenti riflessioni critiche sia sui gruppi armati, sia sulla classe dirigente italiana. Per Veraldi, Zandel e Castellaneta i servizi segreti internazionali si sono infiltrati nelle organizzazioni armate. Camon critica la violenza dei giovani rivoluzionari, ma non è indulgente verso la generazione precedente, mentre Rugarli mette al centro la corruzione e l’incapacità di rinnovarsi della politica italiana.
In diverse opere degli anni 80 ricorre la tematica della critica della violenza: per Vassalli, Bernardi e D’Eramo crea solo disordine, e attraverso di essa non è possibile costruire una società nuova.
Analoghe considerazioni sono proprie anche di opere degli anni novanta: per De Luca, Ortese, Rossi e Consolo la scelta della violenza ha portato solo alla distruzione ed all’autodistruzione.
Le opere del nuovo millennio affrontano anche questioni nuove, come la possibilità di riconciliazione nazionale o il conflitto generazionale (Cotroneo, Tavassi La Greca, Villalta e Doninelli), non più solo tra i protagonisti della lotta armata ed i loro padri, ma stavolta con i figli. Tassinari è l’unico autore che, mettendo in primo piano la figura del reduce, ripercorre, attraverso le diverse prospettive dei protagonisti del suo romanzo, il dibattito che coinvolse i movimenti antagonisti sull’utilizzo o meno delle armi nella lotta politica.
 

Fabrizio Billi