"Nicaragua la rivoluzione dimenticata", di Gianni Beretta, "il manifesto", 18 luglio 2004

All'aeroporto Augusto Cesar Sandino erano numerose le delegazioni che scendevano quella mat-tina presto dal Dc10
settimanale dell'Iberia. Era il 13 luglio 1981. E per la prima volta provai l'ebbrezza dei profumi tropicali e la particolare
atmosfera che pervadeva quel paese. Ero stato inviato da Alberto Tridente a rappresentare i metalmeccanici dell'Flm al II°
anniversario della Rivoluzione popolare sandi-nista. Ad attenderci c'era padre Uriel Molina, francescano, direttore del Centro
Ecumenico Valdivieso, legato alla Teologia della liberazione. All'uscita Uriel ci indicò un tipo in clergyman in composta attesa:
"E' il nunzio Andrea Cordero Lanza di Montezemolo; sicuramente aspetta la valigia diplomatica con le ultime istruzioni dal
Vaticano".
I PRETI MINISTRI: Mezzora dopo eravamo nell'ufficio di Uriel con il "vescovo rosso" di Cuernavaca (Messico), Sergio
Mendez Arceo, e padre Edgar Parrales, ministro per il "benessere famigliare". Si scambiavano soddisfatti le ultimissime da
Roma sulla spinosa questione dei quattro preti-ministri, cui il segretario di stato Casaroli aveva concesso (contro un papa
Wojtyla assai riottoso) una proroga nel governo sandinista: a patto che non celebrassero messa. Quello stesso giorno, Uriel ci
mostrò la Barricada (quotidiano del Fronte sandinista) di qualche giorno prima dove il mitico "Comandante Zero", Eden
Pastora, capo delle milizie popolari, annunciava di abbandonare il Nicaragua per combattere per la liberazione di non si sa
quale altro popolo oppresso. Quella fu solo la prima delle giornate vissute intensamente per tutti gli anni `80 (e oltre). In poche
ore, col mio stentato castigliano, ero entrato nel cuore di un'esperienza rivoluzionaria con livelli straordinari di partecipazione
popolare e che risvegliò aspettative (fin troppe) in tutto il mondo: con la campagna nazionale di alfabetizzazione e massicce
vaccinazioni che, per esempio, sconfissero la poliomielite; con i buoni propositi di pluralismo politico, economia mista e non
allineamento; per la costruzione dell'hombre nuevo, e all'insegna di "entre cristianismo y revolucion no hay contradicion". Ben
presto il papa polacco entrò in rotta di collisione col sandinismo. Uno degli eventi più incredibili di quegli anni fu la
contestazione nella Plaza 19 de julio (marzo 1983), quando il pontefice, rosso di rabbia in volto, alle madri che gli supplicavano
invano una preghiera per dodici ragazzi appena uccisi dai contras, gridò: "La Chiesa è la prima a volere la pace". Sospese a
divinis quei sacerdoti-ministri, mentre padre Uriel fu allontanato dalla parrocchia del barrio Riguero dall'arcivescovo Miguel
Obando y Bravo (che riceveva soldi dalla Cia). Wojtyla, nell'avversione al minuscolo Nicaragua sandinista, si saldò così con
l'altro figuro più potente del pianeta in quel momento: Ronald Reagan, presidente degli Stati uniti per due mandati. Furono otto
anni durissimi di guerra d'aggressione: dal lancio dei contras (che finanziò col narcotraffico e con la vendita segreta di armi
all'Iran), alla posa di mine nei porti nicaraguesi (che gli valse una clamorosa quanto dimenticata condanna della Corte dell'Aja
per "terrorismo di stato"). In più momenti sentimmo incombere la minaccia dell'intervento dei marines. Come all'indomani
dell'invasione Usa di Grenada, nell'ottobre `83, quando i nove comandanti della rivoluzione, oltre a una manifestazione di piazza
più imponente del solito, mobilitarono la popolazione per l'allestimento di rifugi antiaerei presso ogni abitazione. Mentre alla fine
della giornata di lavoro migliaia di persone di tutte le età e sesso in centri di addestramento della capitale davano vita in poche
settimane ai battaglioni di riserva. Un pueblo armado fu il vero deterrente all'opzione di forza predisposta dalla Casa bianca.
Eden Pastora, intanto, non era partito per seguire le orme del Che. Nel marzo 1982 fece sapere che avrebbe rivolto i suoi fucili
contro gli ex compagni del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), rei di aver tradito gli ideali di Sandino
"imponendo una dittatura comunista". A lui devo una delle volte in cui rischiai la pellaccia, quando (nel giugno 1985), insieme a
un'unità di cachorros (i "cuccioli" dell'esercito) che andavano a rinforzare una postazione recuperata alle forze di Pastora sul Rio
San Juan, fummo oggetto del fuoco di fucileria e mortaio dalla sponda costaricense. Eden Pastora, in ogni caso, non confluì mai
del tutto nei contras pagati da Washington. E oggi, senza un soldo e privo dell'aureola del comandante, lo puoi incontrare
facilmente come improbabile candidato a sindaco di Managua.
LA QUESTIONE AGRARIA: Ma quella sandinista poteva essere considerata una rivoluzione totalitaria? I giovani dirigenti del
Fronte incapparono inesorabilmente in parecchi errori. Il principale (col senno di poi) fu la confisca delle proprietà non solo dei
somozisti. Si generarono diffidenze e si pregiudicò la continuità della politica di alleanze che quel 19 luglio 1979 (con Jimmy
Carter a guardare) aeva portato i "nicas" a "vomitare" Somoza. L'economia mista oltre che, successivamente, il pluralismo
politico, restarono dunque sulla carta. Le terre furono in parte inglobate in giganteschi (e pocoproduttivi) progetti agricoli statali;
e in parte distribuite ai contadini, ma senza rispondere alla loro atavica aspirazione di possedere un appezzamento, che
avrebbero difeso con i denti. Al contrario, furono obbligati a organizzarsi in cooperative. Cosicché, molti peones degli ex
latifondisti finirono con l'ingrossare le fila dei contras. Con una politica paternalistica di sussidi, l'agricoltura conobbe una
gravissima crisi di produzione. A un campesino conveniva comprare un chilo di riso piuttosto che produrlo. E le code ai
magazzini diventavano ogni giorno più lunghe. Mi ero infilato in un seminario di quadri sandinisti quando il ministro
dell'agricoltura, Jaime Wheelock, tra lo stupore generale, ammise la propria "ingenuità ideologica", correndo poi ai ripari con la
distribuzione di titoli di proprietà delle terre. Ma era ormai troppo tardi. Gli antisandinisti armati, dipendenti finanziariamente in
toto da Washington, potevano già contare su una significativa base sociale nelle zone rurali. Neppure la tessera di
approvvigionamento (che ci fu ripartita per avere un po' di riso, fagioli, zucchero, olio di semi di cotone, carta igienica, sapone,
denti-fricio e quant'altro offrisse sporadicamente il convento in quel momento) non risolse alcunché a livello di consumi. La
guerra di aggressione fu costosissima in termini di vite umane (57.000 fra morti e feriti) e distruzioni materiali. Ma soprattutto,
impedì al governo sandinista di governare con qualche mezzo in più e qualche affanno in meno. Che era poi l'obiettivo minimo
di Reagan: soffocare un'esperienza tanto destabilizzante nel proprio "cortile di casa". Ciò detto, e ammessa la sostanziale
sovrapposizione fra stato e partito, dovuta in parte al conflitto, si era ben lontani dal controllo sociale che avvertii a L'Avana fin
dal mio primo viaggio (invitato dal Partito comunista cubano) nel marzo dell'84. Pur con tutta la simpatia che potevo nutrire per
la rivoluzione castrista, provavo una sensazione di oppressione. E tornavo con sollievo a Managua. Sarà forse anche per questo
che i sandinisti hanno resistito solo dieci anni scarsi. In ogni caso, pur nell'ipotesi di massima lungimiranza dei sandinisti, sono
convinto che l'esito sarebbe stato il medesimo. Anzi, più esemplari e originali fossero stati, più feroce sarebbe stata la reazione
dell'accoppiata Reagan-Wojtyla. Con l'avvento di Gorbachov, l'Urss tagliò drasticamente gli aiuti anche al Nicaragua, che già
soffriva dell'embargo economico Usa. Per far tornare i conti (con un'inflazione al 30.000 per cento, per cui una birra costava
svariati milioni di cordobas) il governo sandinista fu costretto dall'87 a praticare unilateralmente impopolari restrizioni
economiche. Ma quella sollecitazione ai sacrifici non valse per tutti. Si era ormai formato un ceto privilegiato, alla corte dei
dirigenti più in vista, lontani dalla dura quotidianità della gente. Mentre con i contras cominciò un'estenuante trattativa che non
pose mai fine al conflitto. In questo contesto, si produsse la traumatica sconfitta elettorale del 25 febbraio 1990. Quella notte ci
chiedemmo con angoscia cosa ci sarebbe successo di lì in poi. In realtà, l'esito del voto fu la dimostrazione al mondo della
genuinità democratica della Rivoluzione, il cui risultato primordiale è stato quello di dare dignità a un popolo e a una piccola
nazione fino ad allora "repubblica bananiera". Certo, difficilmente il Fsln si sarebbe avventurato in elezioni libere se non fosse
stato sicuro di vincerle. Sta di fatto che passò la mano. Donna Violeta de Chamorro si rivelò, a posteriori, una sorpresa: scaricò
i nostalgici del somozismo e intraprese una coraggiosa politica di riconciliazione nazionale, nella quale il Fronte Sandinista fece
la sua parte. Il Nicaragua conobbe la pacificazione anche se non la sua ricostruzione, visto che George Bush padre (succeduto
a Reagan) lo abbandonò al proprio destino.
LA DEBACLE: L'imperdonabile debacle è sopravvenuta negli anni seguenti, quando il gruppo dirigente sandinista si è mostrato
incapace di rinnovarsi, perdendo le sue figure migliori, sacrificate alle più perverse logiche di potere personale e del
"comandantismo" di Daniel Ortega e Tomas Borge. Sì, proprio loro, che quando parlavano o ti passavano vicino ti
procuravano un'indescrivibile emozione: ad ammonire che le rivoluzioni (che non possono durare che lo spazio di una luna di
miele) sono fatte da persone in carne ed ossa, la cui mitizzazione costituisce sempre, quando va bene, una distorsione.
L'ostinazione di Ortega a candidarsi ogni volta a presidente (tenendo in ostaggio il futuro del sandinismo), ha consegnato
permanentemente il paese alla destra più reazionaria: prima del vorace Arnoldo Aleman (oggi in carcere per corruzione) ed ora
del vecchio conservatore oligarca Enrique Bolanos. Ma questo fa parte della deriva progettuale e della litigiosità a tutte le
latitudini della sinistra, travolta dalla caduta del Muro di Berlino e dall'incalzare della globalizzazione a senso unico. I risultati
sono disoccupazione e miseria, oltre al deterioramento dei livelli di sanità e istruzione che relegano il Nicaragua agli ultimi posti
in America latina negli indici di sviluppo umano. Eppure, parte significativa del patrimonio della Rivoluzione persiste.
Innanzitutto, il Nicaragua può vantare rispetto ai suoi vicini centroamericani (e non solo) un esercito e una polizia (gli stessi di
allora) che non ti fanno sentire intimorito quando ti fermano. Managua poi, resta nettamente la capitale più mite e pacifica
dell'istmo. Per di più, in questo paese si riesce a sapere quasi tutto, grazie a un giornalismo ruspante, con un lusinghiero livello di
pluralismo e di indipendenza. Da ultimo, resta elevato il livello di coscienza di sé del nicaraguese medio, e la consapevolezza
che ogni prospettiva per un futuro migliore affonda le sue radici nel sandinismo. Come sembra ammonire la gigantesca sagoma
nera di Sandino, "generale di uomini liberi", che dalla collina del Chipote domina la capitale e questa terra di laghi e di vulcani.