Margherita Becchetti, "Il teatro del conflitto. La compagnia del Collettivo nella stagione dei movimenti. 1968-1976", Roma, Odradek, 2003, pp. 187, 12,00 euro

Margherita Becchetti, ce lo ricorda nella prefazione Antonio Parisella, ha le migliori qualità che si richiedono ad una storica, il suo carattere, infatti, è composto di gioia, ironia e rigore filologico e metodologico, insomma sa essere seria senza essere noiosa, con allegria, secondo il migliore spirito dissacrante, trasgressivo e intelligente che caratterizzò i movimenti degli anni Sessanta e Settanta. E ancora, a differenza di altri studiosi accademici, ultraspecializzati nelle loro discipline, sempre più settoriali e specifiche, -i quali al di fuori del loro ambito ristretto possiedono capacità di comprensione dell’uomo e della società che non eccedono in generale il senso comune- l’autrice ha saputo fondere competenze e livelli storico diversi: la storia politica con quella sociale, di costume e del teatro, muovendosi in un quadro spazio temporale che va dall’esperienza del gruppo teatrale di Parma a quella di altri gruppi italiani, europei, statunitensi e viceversa. Diversamente non avrebbe potuto essere trattandosi della storia della Compagnia del collettivo, nata nel 1971, dalla tradizione del centro universitario teatrale di Parma e del festival internazionale del teatro universitario, direttamente coinvolta e travolta dall’ondata della stagione dei movimenti che va dalla seconda metà degli anni Sessanta alla fine del decennio Settanta. In questa periodizzazione Becchetti evidenzia la rottura profonda data dell’evento sessantotto, senza enfatizzarla però al punto di farne un dato unico, irripetibile, miracoloso, durato pochi mesi, ma cogliendo invece la dinamica tra il “prima” che lo prepara e il “dopo” che segue.
 Il lavoro si articola in quattro parti, la prima affronta le origini e lo sviluppo dell’esperienza teatrale  universitaria a Parma; la seconda esamina gli effetti che l’impatto con la mobilitazione studentesca provocò nella compagnia; la terza ricostruisce la nascita e lo sviluppo di quel tipo di teatro che volle definirsi “di classe”; la quarta parte, infine, si sofferma sul passaggio del collettivo teatrale a cooperativa e la riscoperta del teatro popolare, fino alla crisi della seconda metà degli anni Settanta e la nascita di Teatro due.
Il gruppo teatrale in questione segue un  percorso comune, pur nell’ambito specifico del loro operare, di una generazione che scopre la rivolta esistenziale, degli stili di vita, nei confronti degli adulti, costruisce le prime significative ma minoritarie avanguardie politiche anticonformiste alla sinistra del PCI, per “esplodere” nel ’68 e nello spesso dimenticato autunno caldo del ’69, quando per dirla con una delle battute finali della protagonista del film di Bertolucci, I sognatori, la strada entrò nelle case, cioè la dimensione pubblica, collettiva della protesta invase e spalancò le porte del borbottio critico ed esistenziale che premeva nel privato, nel chiuso delle stanze dove i giovani riflettevano tristemente sulla loro condizione di vita. E la dimensione pubblica e collettiva trionfò, riempì le strade e le piazze, riscoprì la politica come partecipazione diretta e in prima persona, come occupazione per cambiare il mondo, qui ed ora. Il teatro, già attraversato dalla coscienza critica circa il suo ruolo, messa in campo dalle sperimentazioni e dalle avanguardie degli anni sessanta, fu costretto ad un apprendistato politico sul terreno della guerra del Vietnam, della rivoluzione culturale e di una lotta di classe che riemergeva prepotentemente nel presente e valorizzava, conseguentemente, quella passata: di qui la fortuna di molte opere di Bertolt Brecht e del suo teatro riprese dal gruppo di Parma che inseriva, qua e là citazioni tratte da Marx e Che Guevara. Mutò anche repentinamente il modo di essere gruppo teatrale e di fare teatro: la compagnia divenne un collettivo, senza capi e gerarchie, un’assemblea di gruppo. Col pubblico si discutevano le rappresentazioni, si trasformava il finale delle rappresentazioni in discussioni collettive, si volle portare il teatro fuori da teatro, nei quartieri operai e nelle borgate popolari. Il gruppo teatrale divenne strumento della lotta politica e si concepì come parte di un più vasto movimento di protesta, di contestazione, di lotta e di rinnovamento radicale. Si diede spazio alla lotta operaia presente e passato, allo stesso modo dell’antifascismo, vissuto in parallelo come riscoperta delle barricate di Parma e del movimento degli Arditi del popolo del 1921, con quelli militante praticato dai gruppi della sinistra extraparlamentare, nuova, giovane, rumorosa e generosa. Il conflitto con i compiti della cultura, come la intendeva il PCI, tutto compromesso storico, moderazione, e normalizzazione istituzionale del conflitto, fu inevitabile. Si tentò, ancora una volta, di emarginare i dissenzienti, di richiamare all’ordine e alla responsabilità verso il partito gli intellettuali, di farne dei novelli suonatori di piffero per la politica del partito, secondo la bella definizione dell’intellettuale modello PCI data da Elio Vittorini nella polemica con Palmiro Togliatti negli anni della rivista «Il politecnico».
 In quest’ambito avvenne, parallelamente al mutare della situazione politica e sociale nella metà degli anni settanta, il recupero del teatro popolare a scapito di quello di classe: farsa, canzone, ironia, sarcasmo, comicità divennero strumenti per rappresentare la propria visione del mondo. Intanto si avviava alla conclusione la stagione dei movimenti e, sul finire del decennio,  la compagnia teatrale si trasformava in Teatro due, cioè il secondo teatro nella città di Parma, molte cose erano cambiate e i giovani studenti rivoluzionari erano cresciuti ed erano diventati degli attori professionisti; il teatro come attività professionale, lavorativa, imponeva una riproposizione della divisone del lavoro all’interno del gruppo che soppiantava la tradizione e assembleare e collettiva che si erano dati sull’onda della contestazione alle gerarchie. La tensione teatrale militante, politica, si andava stemperando sostituita da  un impegno civile, professionale, intellettuale genericamente a fianco delle battaglie della sinistra.

Diego Giachetti