Angelo Bolaffi - Erri De Luca, Come noi coi fantasmi. Lettere sull’anno sessantottesimo del secolo tra due che erano giovani in tempo, Bompiani, 1998, p. 126, L. 10.000
 

Ancora un libro di memorialistica sul ’68. Si tratta infatti di una serie di lettere che i due amici si sono scritti in occasione del trentennale di un anno che, pur nella diversità delle scelte successive, è stato importante nelle loro vite.
Sul 1968 esiste già moltissima memorialistica e molto meno studi analitici approfonditi e documentati. C’era proprio il bisogno che qualcun altro ex protagonista del ’68 si mettesse a spiegarci la sua verità su quell’anno? Certamente ognuno può dire quello gli pare, ma quando lo dice in forma pubblica, come con la pubblicazione di un libro, si presuppone che quello che ha da dire interessi ad un vasto pubblico, a chiunque compri il libro. In questo caso non è così. Il pubblico di questo libro non è costituito dall’insieme generico delle persone che lo comprano. Né è un’opera rivolta agli studiosi, e nemmeno è un’opera divulgativa. Il pubblico cui è rivolto questo libro è uno soltanto: i reduci. La categoria del “reduce del ‘68” è ormai una categoria antropologica vasta e differenziata. De Luca e Bolaffi appartengono ad una tipologia del reduce del ’68 connotata dai valori negativi della sconfitta e, più ancora, del fallimento delle loro aspettative, e dall’incapacità di “elaborare il lutto” della sconfitta e del fallimento. Questo vale per entrambi gli autori: sia De Luca per il quale il ’68 si prolungò almeno fino alla scomparsa di Lotta Continua se non fino alla sconfitta operaia alla Fiat, sia per Bolaffi, per il quale il ’68 terminò nella primavera ‘71. Infatti, come scrive nel libro, nel ’71 si allontanò dal movimento che cominciò a considerare irrazionale ed estremista, e prese le distanze da “chi inneggiava a ‘champagne e molotov’ sognando che ‘la classe operaia deve dirigere tutto’ ”. Ma anche questo suo rigetto cos’è, se non l’incapacità di analizzare più a fondo quel movimento, le sue origini e i suoi esiti nell’Italia degli anni sessanta e settanta? Per Bolaffi il periodo dal ’69 al ’77 sono anni perduti (come ha dichiarato ad una presentazione del libro), mentre diversa è la posizione di De Luca, che di quegli anni perduti è stato protagonista. Protagonista non pentito, ma fallito, a cui oggi resta solo “l’amara constatazione che alla resa dei conti la somma degli errori commessi è sempre superiore a quella delle cose più o meno buone da poter rivendicare”. Il suo è il tipico caso di aspettative deluse: “Cercavamo giustizia ma non l’abbiamo trovata, per eccesso di passione, per troppo amore”.
La posizione di De Luca, è descritta da lui stesso con un efficace paragone con la situazione di Marek Edelman, uno dei comandanti della Resistenza nel ghetto di Varsavia: “quando si vivono a vent’anni i momenti più importanti della propria vita è difficile in seguito trovare un’occupazione che non sembri priva di senso”. Dopo quei momenti esaltanti, nulla poteva essere altrettanto esaltante.
Ma il contrasto tra le posizioni dei due autori è più apparente che reale. Infatti entrambi si pongono nella medesima ottica di analisi: l’ottica del reduce, di chi considera che il ’68 dal punto di vista storiografico non può essere ancora rielaborato (anche questo è stato affermato ad una presentazione del libro). Se l’analisi storica è preclusa, cosa resta? Solo le sensazioni, i sentimenti. Sentimenti di estraneità nel caso di Bolaffi, di appartenenza e di rimpianto nel caso di De Luca. Questo libro non vuole fare una analisi storica, non vuole fare ricerca sociale. Ma in questo contesto, anche quegli aspetti interessanti del libro che pure esistono perdono di valore e si riducono alla riproposizione di immagini stereotipate.
Come la questione, evidenziata da Bolaffi, delle “due anime” del ’68. Secondo lui il “vero” ’68 finisce tra il ’69 e il ’70, dopo si riduce ad “una rilettura in chiave attivistico-irrazionalistica del marxismo”, ad “un’orgia di irresponsabile dannunzianesimo e di incosciente goliardia”. Bolaffi in questo modo pone l’accento su una questione importante: quanto è durato il ’68? Ha senso parlare di un lungo ’68 (così come lo intende anche De Luca)?
Altra questione interessante, forse la più interessante e centrale di tutte: la contraddittorietà del ’68 tra passione libertaria e creazione di un nuovo conformismo, tra distruzione dei valori borghesi e nuova ortodossia. Come scrive Bolaffi, “dopo aver infranto antichi idoli alcuni, come intimoriti dal proprio gesto, decisero di erigere un nuovo vitello d’oro cui intonare preghiere rivoluzionarie”. E’ questa una contraddizione che meriterebbe di essere indagata maggiormente, perché è forte l’ipotesi che essa sia “la” contraddizione su cui si esaurì lo slancio rinnovatore del ’68. Ma la tesi riproposta è vecchia e stereotipata: è la solita tesi sul ’68 buono, spontaneo, creativo, e sui gruppi cattivi, burocratici e financo violenti. E’ una contraddizione sicuramente vera ma difficilmente riducibile agli schemi semplicativi di Bolaffi, perché non spiega come sia possibile che alcune aspettative generino il proprio contrario, e soprattutto rifiuta che anche nei gruppi possa essere confluita l’eredità del ‘68.
Ed ancora, un altro paradosso del ’68: un grandissimo slancio, un fortissima volontà di cambiare le cose, e la modestia dei risultati conseguiti: “per ottenere relativamente poco, annota Jakob Burkhadt, la storia ha bisogno di preparativi enormi e di un fracasso assolutamente sproporzionato”. Bolaffi si contenta della modernizzazione sociale e dei costumi prodotta dal ’68, mentre a De Luca questo risultato lascia l’amaro in bocca, gli sembra poca cosa in confronto alle aspettative.
Ed infine sono interessanti le pagine di ricostruzione del percorso di formazione politico-ideale dei due autori nell’italietta degli anni cinquanta e sessanta. Una Italia in cui “a Roma a far da padroni erano la volgare arroganza dei palazzinari e l’ottuso perbenismo clericale colluso con la violenza del neofascismo”. Una Italia e un mondo in cui non era più possibile non sentire le ingiustizie, e la ribellione scoppia con i casus belli del Vietnam (lo scandalo di constatare che la nazione culla della libertà si comportava peggio dei nazisti) e dell’omicidio di Paolo Rossi da parte dei fascisti all’Università di Roma, evento che segna l’inizio della ribellione nell’università romana dominata dai fascisti spalleggiati dal Rettore.
Ma quei pochi tratti interessanti di ricostruzione storica e di analisi storico-politica perdono di valore nell’impostazione generale del libro. Infatti che cosa apporta di novità questo libro? Nulla. La riproposizione della tesi di Touraine del ’68 come “ultima giornata rivoluzionaria dell’Ottocento” da parte di Bolaffi e un po’ di rimpianto da parte di De Luca. Non si stupiscano perciò gli autori se “oggi i ragazzi guardano a noi di allora, ai loro coetanei di trent’anni fa, a quelle storie come noi facevamo coi fantasmi”. Perché mai ad un giovane dovrebbe interessare il parlarsi addosso di reduci che rimuginano le loro tristezze, le loro sconfitte, i loro fallimenti, le loro amarezze? Solo ad altri reduci possono interessare, ed infatti non è un caso che il libro sia stato accolto favorevolmente da molti iscritti alla categoria degli “ex” del ’68.

Fabrizio Billi