Franco Berardi (“Bifo”), La nefasta utopia di Potere Operaio, Edizioni Castelvecchi - Derive e Approdi, Roma, 1998, p. 249, L. 29.000
 

Il titolo di questo libro fa il verso ad un articolo di Giorgio Bocca del ’79 che vedeva nelle parole d’ordine di Potere Operaio del rifiuto del lavoro e dell’insubordinazione al capitalismo una irrazionale, assurda utopia. Ben diversa la valutazione di quell’esperienza di “Bifo”. Per lui è criticabile solo una parte di quell’esperienza: a suo giudizio l’esperienza di Potere Operaio è composta da due filoni teorico-politici ben distinti e diversi, anzi contrapposti. Un primo filone è quello “leninista” ed “organizzativista”, ed un secondo filone è quello antiproduttivo, assenteista, contrario all’etica del lavoro. Bifo si identifica con questa seconda posizione, e legge la vicenda di Potere Operaio alla luce di questa contrapposizione.
Questo libro non è e non vuole essere un saggio storico, una ricostruzione della storia di Potere Operaio. L’autore onestamente lo dichiara subito. Sua intenzione è invece riflettere sul percorso di quella organizzazione per coglierne gli elementi che ancora oggi avrebbero validità. Si tratta quindi di un saggio politico, non storico. E questo è bene precisarlo perché lo si giudichi per quello che il libro è e non per quello che non è e che non vuole essere.
Non è perciò possibile fare una critica da un punto di vista puramente storico perché non si tratta di un libro di storia; ma è però possibile fare alcune notazioni su aspetti storici, perché Bifo si basa sulla ricostruzione storica della vicenda di Potere Operaio per sostenere le proprie tesi politiche.
Il libro è suddiviso in tre parti: la prima, “Dal punto di vista dell’estraneità”, in cui l’autore ricostruisce le linee filosofiche che preparano il terreno all’esplosione del ’68 e alla formazione dell’autonomia operaia. La seconda, “Ultimi bagliori del Novecento” descrive il percorso di Potere Operaio. La terza, infine, “Tracce di futuro nella metropoli”, è più compiutamente la parte di riflessione politica; secondo le parole dell’autore, “è una proiezione degli schemi interpretativi (composizionisti) elaborati nell’ambito di quell’esperienza sullo schermo gigante dell’epoca digitale che sotto i nostri occhi è in pieno dispiegamento”.
Consideriamo più che altro i primi due capitoli, dove viene delineato il percorso storico che negli anni ’60 porta alla nascita del fenomeno dell’autonomia operaia, di cui Potere Operaio è una delle espressioni. La ricostruzione di Bifo, pur non apportando elementi di novità e di originalità, ha comunque il merito di considerare l’evolversi storico delle vicende da un punto di vista tanto importante quanto finora trascurato: la dialettica tra istanze di rifiuto del lavoro e la tradizione leninista. Potere Operaio è una delle forme in cui si è incarnato in Italia, tra la fine degli anni ’60 (e prima con la riviste operaiste) ed i primi anni ’70 (e dopo fino al movimento del ’77) il rifiuto del lavoro da parte di una minoranza, ma di una minoranza robusta e soprattutto vivace. Ed in effetti l’esistenza di Potere Operaio fu sempre dominata da un mix di organizzativismo “leninista” e di ribellismo immediato contro l’organizzazione del lavoro in fabbrica, per più alti salari, in una parola per i “bisogni” dell’individuo contro i doveri produttivistici. Questo strano mix non durò molto, ed i militanti presero le strade più diverse: alcuni, accentuando le tendenze organizzativistiche, entrarono nelle Br (e non a caso nelle Br e non nei Nap o in Pl, organizzazioni armate più spontaneistiche) per costituire il nucleo d’acciaio del partito rivoluzionario, altri presero le strade che portarono ai vari tronconi dell’autonomia, fino al movimento del ’77, dove convissero ancora una volta l’anima creativa e l’anima più “politica”. Per Bifo le due anime di Potere Operaio sono riuscite a convivere per qualche anno, poi le divergenze si sono sempre più manifestate ed alla fine l’anima “organizzativistica” ha preso il sopravvento ed è riuscita a “liquidare la novità teorica dell’operaismo italiano, per riproporre quanto di più dogmatico vi sia nella tradizione leninista: la concezione del partito di quadri, che sistematicamente, nella storia del Novecento, è stato fucina di disgrazie volontaristiche o di privilegi burocratici”.
Ma se l’ottica di Bifo coglie nella dialettica tra le due posizioni una tematica vera e importante, la ricostruzione storica rimane poi imprecisa e superficiale. Infatti Bifo considera il convegno di Potere Operaio tenutosi a Firenze nel gennaio 1970 il momento in cui si avvia la separazione delle due anime dell’organizzazione. In realtà questo è opinabile, e probabilmente l’intreccio tra le due posizioni è molto più complesso ed intricato di quanto Bifo vuol fare apparire. Infatti, per fare un solo esempio, la “giornata di lotta contro la strage di stato” dell’11 marzo 1972, che Bifo minimizza quasi negandone l’esistenza, non solo ci fu, ma fu concepita come un momento insurrezionale da tutta l’organizzazione, non solo dalla parte “leninista”.
Se è comprensibile e scusabile che il libro non apporti novità sulla storia di Potere Operaio, è meno scusabile la superficialità della ricostruzione storica: infatti se il lavoro di ricostruzione storica è compito degli storici, la precisione deve essere compito di chiunque, e sarebbe certo stato più corretto se Bifo si fosse limitato ad aprire delle questioni (ripeto, ottima l’intuizione delle “due anime” dell’operaismo) piuttosto che rispondervi con superficialità.
Del resto la superficialità della ricostruzione storica fa il paio con la superficialità dell’analisi politica. Su questa ognuno giudicherà, ma non si può fare a meno di constatare che la seconda parte del libro soprattutto, è un delirio pressoché incomprensibile, un guazzabuglio  di globalizzazione, post-modernismo, informatica, realtà virtuale, neo-liberismo, argomentando la sua esposizione con  citazioni da testi altrettanto incomprensibili. In Potere Operaio ci saranno anche state le due anime individuate da Bifo, ma quello che le accomuna è la pesantezza, la ponderosità e la noiosità dei loro discorsi. Questo elemento è ben presente anche nel libro di Bifo, e dispiace doverlo constatare, dal momento che l’autore ha solitamente una maggiore lucidità. Ma stavolta siamo proprio oltre i limiti.
Tanto per dare un’idea della prosa di Bifo: “Le interfacce tecnosociali si connettono progressivamente verso la trasformazione dell’economia globale in hive-mind, cervello alveare che funziona secondo finalità preiscritte e cablate nel corredo tecnolinguistico dei suoi terminali umani. A quel punto, il superorganismo bionformatico legge l’umano e lo scarta come rumore”. Oppure ancora: “La sostituzione del lavoro cognitivo al lavoro industriale è il fattore fondamentale del processo di formazione della Neurorete”.
Certamente Bifo non è un neofita nell’occuparsi di realtà virtuali, ciber-punk, ecc., il fatto è che oggi discetta di realtà virtuale come ieri pontificava sul capitalismo industriale, con affermazioni apodittiche ed ultimative. Non è un caso che questo libro non sia un saggio storico. Probabilmente l’autore, e con lui tanti altri ex militanti di Potere Operaio (Negri, Tronti) si trovano a loro agio solo quando discutono di filosofia dei massimi sistemi, non quando devono fare i conti con dati quantitativi, statistici, documentabili, propri della storia e dell’economia. Probabilmente la militanza operaista ha creato una forma mentis più propria alla chiacchiera “filosofica” (nel senso della chiacchiera da bar sui massimi sistemi) che all’analisi della realtà.
Un libro, quindi, poco utile per l’analisi e la ricostruzione storica di un filone politico, quello operaista, pur fondamentale nella sinistra italiana degli anni ’60 e ’70, ed in più scritto con un linguaggio involuto ed astruso, che probabilmente nasconde una grande superficialità di analisi e di progetto.

Fabrizio Billi